Cardillo

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Prendere una posizione

Wuppertal,


Ralf Ferdinand Broekman ed Olaf Winkler intervistano per la seconda volta Antonino Cardillo per la rivista build Das Architekten




build 5-11



Intervista

, con Ralf Ferdinand Broekman ed Olaf Winkler


RFB-OW: “Antonino Cardillo, sei diventato noto soprattutto per progetti di scala piuttosto ridotta. Quanto è importante questa specifica tipologia di progetti per i tuoi concetti architettonici e il tuo pensiero generale?”

AC: “I pezzi più rivoluzionari dell’architettura moderna sono stati edifici di piccole dimensioni: una casa di mattoni rossi, un padiglione fatto di lastre di marmo, una villa quadrata sospesa su colonne, una casa su una cascata, una cappella deformata e un municipio a Säynätsalo. Negli anni 1960, una casa grigia che sembrava un gigantesco timpano spezzato mise in discussione i dogmi razionalisti. E poi di nuovo negli anni 1980, un architetto canadese sollevò dibattiti nel mondo dell’architettura disseminando Los Angeles di case ready-made. La piccola scala porta libertà e spesso i piccoli budget offrono grandi possibilità di sperimentazione. Per questo motivo, anch’io progetto case.”


RFB-OW: “L’ultima volta che abbiamo parlato con te, hai sottolineato che l’architettura non deve necessariamente fare affidamento su materiali preziosi o mobili costosi. Tuttavia, le tue opere riflettono certamente una specifica eleganza. Come definiresti l’eleganza, forse anche il lusso?”

AC: “Credo nell’eleganza, ma non nel lusso. Penso che siano due visioni opposte. L’eleganza è la manifestazione visiva di uno stato personale di ricerca. Perseguirla è vano. È solo il risultato esterno di un’elaborazione interiore. Gli asceti, gli artisti, i curiosi della vita sono eleganti. Il lusso si compra e si vende, è una scorciatoia apparente che si rivela – agli occhi attenti – come una tragica parodia dell’eleganza. L’architettura lussuosa, quindi, è un ossimoro.”


RFB-OW: “Il modo in cui gestisci lo spazio, il tipo di eleganza menzionato, l’aspetto del tuo lavoro, sottolineato dal modo in cui viene presentato nelle immagini, potrebbe essere considerato uno stile molto personale. Quanto è importante un linguaggio personale, una firma, uno stile – come risultato del tuo modo di pensare l’architettura, ma anche come mezzo di distinzione nel mercato dell’architettura?”

AC: “Nel 2002, con la mia tesi di laurea Let There Be More Light, ho sperimentato per la prima volta la discretizzazione delle superfici nurbs a doppia curvatura. Tra il 2007 e il 2011 ho progettato sette case in cemento, travertino e legno. Poi, progettando un piccolo negozio temporaneo per Sergio Rossi, ho conosciuto una direzione diversa, più inclusiva. Oggi, progettando il Postmodern Cafe per il Victoria and Albert Museum, sperimento una cromaticità nuova nei miei lavori, una palette di colori ipersaturi ispirati a quelli dei computer degli anni 1980. Non mi interessa la riconoscibilità del mio lavoro, penso che sia una limitazione artistica, un problema di ordine commerciale.”


RFB-OW: “Hai parlato dell’importanza dei progetti di piccola scala. Quanto sarebbe interessante per te concentrarti su progetti più grandi, passare a una scala maggiore? Dove vedi le principali sfide negli spazi urbani, soprattutto riguardo al concetto di Città Europea, che è ancora così tanto legato all’immagine delle città storiche italiane, da un lato, e ai nuovi sviluppi globali, sociali e politici che influenzano la crescita delle città e le limitazioni nella pianificazione urbana, dall’altro?”

AC: “La città è un organismo imprevedibile che si auto-genera nel tempo, costruito da reti visibili e invisibili di segni e significati. L’architettura può influenzare la crescita di una città, ma quando supera una certa dimensione, quando l’architettura impone un piano, la città si ammala. A Tokyo e Osaka ordine e caos coesistono: una molteplicità di sistemi diversi stratificano tempo e spazio, costruendo la migliore modernità possibile. Al contrario, le nuove città cinesi, anche viste dall’alto, appaiono come modelli ideali di assenza di vita. L’architettura è un desiderio di ordine, e quindi di morte. È ordine anche quando sembrerebbe disordinata. Spesso inizia dove la vita finisce, e oltre una certa dimensione diventa fascismo.”


RFB-OW: “Come giudichi, in questo senso, il crescente numero di edifici ‘iconici’, che significa anche la crescente domanda di individualità nell’architettura in generale e di edifici piuttosto spettacolari ed espressivi in particolare?”

AC: “Molto tempo fa, l’umanità celebrava il mistero della creazione costruendo grandi case per esseri magici invisibili chiamati dei. L’architettura trasfigurava alberi e pietre in qualcosa di grandioso e comunicativo. Era un linguaggio universale, come la musica, e nella sua logica si stratificavano le tradizioni più antiche. Quell’architettura pre-moderna celebrava il potere e si basava sull’ignoranza e la sottomissione della maggioranza degli esseri umani. In Occidente, con l’avvento dell’era moderna, l’umanità sembrava liberarsi da poteri secolari e una nuova architettura scopriva nella modernità nuove energie e una fresca ragion d’essere nella storia. Ma alla fine degli anni 1980, con la caduta dell’URSS – il paradossale sostegno delle democrazie occidentali – qualcosa cambiò. Per decenni abbiamo assistito al ritorno nascosto della società a una condizione pre-moderna e l’architettura ha registrato questa mutazione. Dietro la proliferazione di una moltitudine di edifici neo-moderni iconici si nasconde una manipolazione sadica: un’immensa miniera di idee, passioni, guerre civili e ideali costantemente saccheggiati e abusati senza vergogna dai media. I significati originali vengono alterati, riscritti o cancellati. Così, manipolato fino al punto di lobotomizzazione, il moderno diventa innocuo, un’immagine, una maschera crudele e grottesca che celebra indistintamente dittatura e consumismo.”


RFB-OW: “Questi pensieri includono una riflessione sullo status dell’architetto, dell’architettura come disciplina in sé? Come affronti i confini dissolventi della disciplina, aprendoti al design di prodotto così come ad altre discipline culturali, forse anche alla scienza, alla politica, ecc.? Ti considereresti conservatore in questo senso?”

AC: “L’architettura in una democrazia, oltre una certa scala, dovrebbe dissolversi nella partecipazione collettiva. Forse non è il caso che città come New York siano costruite con architetture invisibili e anonime. Quando le variabili, le parti, gli attori e gli utenti sono molti, è auspicabile che l’architettura scompaia, ma credo sia altrettanto importante riflettere su quali direzioni siano opportune per far scomparire l’architettura. Ogni volta che l’architettura cede ai dettami del consumismo e della produttività, costruire rimane un atto di imperialismo, e quindi antidemocratico. Sarebbe auspicabile che l’architettura scomparisse nella partecipazione democratica, nel rispetto dei luoghi, dei valori antropologici e della storia del paesaggio. E dopo decenni, questa grande sfida torna di attualità oggi grazie alla partecipazione dal basso resa possibile dai social network.”


RFB-OW: “In effetti, sei presente pubblicamente non solo attraverso l’architettura costruita, ma anche attraverso contributi a riviste, scrivendo di architettura. Come giudichi la situazione attuale per uno scambio aperto e un dibattito pubblico sull’architettura?”

AC: “C’è paura dentro di noi, e ciò che non accettiamo negli altri è spesso un riflesso del nostro carattere. Rileggendo i miei articoli di critica, mi è capitato di scoprire che in verità stavo semplicemente criticando me stesso. Senza l’esercizio della critica, senza prendere una posizione, senza conflitti – che sono spesso anche interni – non c’è creazione. Ma la critica è in via di estinzione nelle pagine delle riviste. La stampa celebra il sistema o diventa essa stessa il sistema e, facendo così, regredisce nell’intrattenimento.”


Antonino Cardillo a Shoreditch

Antonino Cardillo a Shoreditch di Londra, 2011. Fotografia: Ryoko Uyama





Fonte

  • Antonino Cardillo, ‘Taking a position’ (pdf), build Das Architekten-Magazin, n. 5/11, cur. Ralf Broekman ed Olaf Winkler, Wuppertal, ott. 2011, pp. 44‑51.