Racconto
Antonino Cardillo
La Casa della polvere è uno stato transitivo tra civiltà e cultura. Un’opera che tenta di integrare ambiti disciplinari orbitanti attorno all’architettura: in particolare, antropologia, archeologia e storiografia. A dieci anni dalla sua progettazione, essa si rivela anche come risposta politica al tempo presente. L’intento era reintegrare istanze, elementi e desideri rintracciabili nell’architettura del passato – persino in quella di Roma antica – traducendoli in una lingua del presente, capace di evocare senza semplificare. Ma soprattutto, realizzarli con un’architettura possibile, compatibile con le risorse messe a disposizione dal committente.
Quest’ultimo, Massimiliano Beffa, notaio di professione, ha reso possibile l’opera. Per alcuni anni abbiamo condiviso tempo e luoghi: la romanità e i viaggi sulle sponde meridionali del Mediterraneo – Turchia, Egitto, Marocco, Tunisia. Eravamo mossi dal desiderio di recuperare le atmosfere esperite in quei luoghi. Perché era importante? Perché, come insegna la psicologia analitica, l’architettura moderna – fin dall’Illuminismo, ma forse anche prima – ha cercato di comprendere il mondo sezionandolo, classificandolo. Ha assunto un atteggiamento ordinatore. Non a caso, il computer, apice di tale civiltà, è chiamato anche ordinatore. Tutto ciò corrisponde a un’apoteosi del controllo: l’illusione di eliminare il male e costruire una società del bene.
L’architettura come integrazione dell’ombra
Cos’è dunque la Casa della polvere? È un tentativo di integrare nella psiche gli errori, il sedimento di ciò che è censurato e represso. Opera su un piano di accettazione dei lati oscuri – quelle parti che tendiamo a proiettare sugli altri. Questa attitudine ha affinità con la storiografia, che spesso è conseguenza di una proiezione: quella dello storico e della collettività che egli incarna. L’architettura, qui, diventa processo che integra l’oscurità.
Spazi immersi in un buio dannunziano, che non celebra il paradiso dantesco, né il cielo blu, né quello stellato della cappella di Giotto. Questo spazio celebra l’idea della grotta. E cos’è la grotta? È immagine primordiale dell’Anthropos originario, dove anche lo spazio architettonico ha avuto inizio. La storia dell’architettura studia pochi millenni di architettura cosciente, ma dimentica che per oltre un milione di anni l’umanità ha abitato in luoghi arcaici.
L’inconscio collettivo, secondo la psicologia analitica, è ancora oggi animato da immagini arcaiche. Anche Freud, in epoca precedente, ne aveva intuito la presenza, definendole “residui arcaici”, pur senza coglierne appieno la natura psichica, che egli interpretava ancora in chiave culturale. Nell’architettura moderna, tale materiale o non è integrato, oppure viene recuperato superficialmente, come tendenza. La Casa della polvere cerca invece di celebrarlo – di integrare ciò che è censurato, represso, nascosto. Non è un’architettura dell’accessibilità, ma dell’essere svelata. Perché la verità non è una realtà data: è l’atto dello scoprirla.
Abbandonando le certezze del “palazzo di cristallo” – paradigma di una modernità che vorrebbe tutto esposto – la casa ricerca una dimensione alternativa. Una verità dietro le cose, dietro gli errori, dietro le angosce. Tutto ciò ha a che fare con l’erotico. Così, la casa si compone di compressioni e dilatazioni, strettoie, passaggi segreti e distanze. Stanze come stagioni, come stazioni della narrazione.
Allegorie dello spazio: il salone e la stanza dell’intimità
Il salone – prima stanza che si incontra dopo aver varcato un piccolo vestibolo ribassato – è una rappresentazione allegorica della terra, della polvere e della grotta. Lo schema planimetrico già evoca uno spazio sacro: un recinto con un fondale che assume la natura di un piccolo ambone, o di una cappella, illuminata da una ferita di luce rosa che emerge dal suolo di cemento.
Che cos’è dunque questo fondale? È l’inveramento dell’idea di lapide, di pietra tombale. Occlude e nasconde lo spazio destinato alla preparazione del cibo: la cosiddetta cucina. Come se la casa volesse suggerire: chi ha stabilito che una casa debba necessariamente avere una cucina? Lo spazio della produttività potrebbe anche non esserci. Lo spostamento della parete è un andare al di là – un oltrepassare la tomba, incarnando una figura psicologica: accettare che dietro ogni muro esista un altro mondo possibile. Imparare a credere nell’esistenza dei passaggi segreti.
La casa si configura così come una costellazione di allegorie, di possibilità. Una forma di poesia inverata da parole sensibili, che generano un codice desideroso di ereditare la ricchezza semantica di una lingua del passato.
La stanza dell’intimità, invece, allude a un giardino astratto che opera esclusivamente sul piano cromatico: rosa, crema e verde malva. Si presenta in forma planimetrica di rettangolo e si caratterizza per tre elementi. Il primo è una oscura enfilade, simile alla porta di una città: due archi, uno più grande e uno più piccolo. Quest’ultimo è anche più basso, poiché vi si accede scendendo, accentuando l’idea di compressione.
Questa figura rimanda a ciò che abbiamo perduto nella percezione della città. Un tempo, la città era un corpo chiuso, e vi si accedeva attraverso porte. La città era proiezione spaziale del corpo umano. Con la rivoluzione industriale, questo corpo è esploso, perdendo i suoi muri e le sue porte – figure psicologiche della sua ragion d’essere. Oggi non entriamo più nelle città: ci troviamo in esse d’improvviso, senza accorgercene.
Secondo una mia interpretazione, questa dissoluzione potrebbe rappresentare fisicamente la nevrosi che agita la società moderna. La perdita delle porte è perdita di una misura di contenimento. Eliminato il contenimento, l’identità esplode, si diluisce, si frammenta. Ciò che avrebbe dovuto essere un processo di liberazione si è rivelato, nel tempo, il suo contrario.
Ma vi sono altri due elementi nella stanza che rimandano alla natura sensibile del progetto. In apparenza mutuati dalle case chiuse – il lavandino e la doccia – qui ritornano trasfigurati in due figure di bellezza: un monolite di porfido e una colonna ionica tessile.
Tipologia, censura e reintegrazione dell’erotico
Uno dei fondamenti del progetto era esplorare una tipologia abitativa che si emancipasse dall’idea borghese di “camera da letto”. Curiosamente, questo atteggiamento censorio caratterizza anche il modernismo architettonico, che evitava sistematicamente il tema dell’erotico. L’argomento dominante era la divisione funzionale tra dormire e mangiare. Ma la vita è molto più di questo. A ben vedere, è paradossalmente più erotica una chiesa barocca di una casa della Bauhaus.
La Casa della polvere pone una domanda: perché questo aspetto è andato perduto? Perché, mentre Freud reintegrava l’erotico nella psiche, gli architetti del Movimento Moderno lo rimuovevano dall’architettura? Quale significato ebbe questa rimozione? E quali conseguenze ha avuto sulla nostra percezione dell’abitare?
In questa piccola opera, ho cercato di esplorare come reintegrare tale materiale su scala ridotta, restituendolo a una dimensione processuale. Rievocando una possibile ritualità attraverso un semplice passaggio: dalla caverna al giardino, attraverso il doppio arco soglia, che stabilisce una possibilità – elemento sacrale che invita all’attenzione.
Questo materiale storico rimanda alle sue radici arcaiche, come le forme degli archi antropomorfi nella necropoli della Banditaccia. La modernità ha considerato cancellabili questi residui, mentre la psicologia analitica ha mostrato che tali forme sono inalienabili. Appartengono al carattere costitutivo della psiche. E l’averne rimosso la presenza semantica è forse sintomo della nevrosi collettiva che agita il nostro tempo presente.