Cardillo

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Da Zak McKracken ad House of Dust

Roma, 11 maggio 2019 (conferenza)
Trapani,  (ultima revisione)


Trascrizione editata da Brianna Ruland della conferenza, parte del festival Rome Video Game Lab 2019 dell’Istituto Luce negli Studi di Cinecittà




Istituto Luce Cinecittà



Conferenza


Inizierò raccontando la mia storia. Dodici anni fa iniziai a costruire una serie di . Volevo comunicare la mia architettura. Così, produssi sette case in realtà virtuale, inviando immagini generate al computer alle riviste di architettura più influenti del pianeta. Dal 2007 al 2012, più di centocinquanta pubblicazioni, dall’Australia alla California, riprodussero queste opere. Per almeno sei anni, in molti credettero all’esistenza di queste case, venendosi a definire un fenomeno di realtà simulata. Nel 2009, la rivista inglese di stile ed architettura Wallpaper*,⁠[1] aggiunse una sottostoria: venni selezionato tra i trenta migliori architetti dell’anno. Tre anni dopo, l’attuale vicedirettore della rivista tedesca Der Spiegel Susanne Beyer, chiese un’intervista. Beyer venne a Roma, parlammo per tre ore e dopo una settimana pubblicò un articolo titolato ‘Impostore’ sull’editoriale della rivista.⁠[2] Così nacque lo scandalo Cardillo, che ebbe risonanza soprattutto nei paesi di lingua tedesca.

In quella storia, utilizzai la realtà virtuale per necessità. Non mi curai di ponderare una teoria. Come uno scrittore vuole pubblicare la sua storia, o un regista vuole produrre il suo film, io volevo costruire la mia realtà. Ma la mia posizione di giovane architetto non contemplava commissioni tali da poter realizzare opere ambiziose. Così usai la tecnologia per andare, parafrasando Nietzsche, al di là del fantastico e del reale. Distruggere la realtà ed il potere costituitovi, questo il potenziale che intravidi nella realtà virtuale. Provai a farlo interferendo sui media, innestando quindi un sottotesto critico in quella storia.

Nel 2013, un anno dopo l’articolo di Der Spiegel, costruii l’opera di architettura House of Dust. House of Dust è un appartamento ubicato all’interno di un condominio umbertino, in una traversa di Via Veneto a Roma. L’opera racconta di una casa borghese che vuole sembrare un ninfeo rinascimentale. Il grotto artificiale, sin dall’antichità, è il luogo dove ci si imbosca. L’idea è quella di introdurre la dimensione del dionisiaco in un interno borghese. L’idea della grotta afferisce al torbido, al misterioso, ai desideri oscuri. L’intenzione di House of Dust è quindi di mettere in discussione i valori di pulizia, sottesi nell’architettura moderna borghese. Allo stesso tempo, lo spazio propone una lettura della psiche del proprietario. Ciò che abita la coscienza e ciò che abita l’inconscio, nello spazio di House of Dust si trovano rovesciati.

House of Dust

House of Dust



L’oggetto di questa conversazione sarà quindi la comparazione tra quest’opera di architettura ed il video gioco Zak McKracken and the Alien Mindbenders.⁠[3] L’analisi che seguirà è retroattiva. Al tempo della costruzione di House of Dust, avevo dimenticato la mia esperienza di gioco, avvenuta nel 1989. Quando Diego Grammatico mi ha invitato a parlare su video giochi e architettura, quasi subito è emerso il ricordo di Zak. Ho messo quindi assieme alcune schermate di Zak con le foto di House of Dust, e d’improvviso ho realizzato quanto questo gioco avesse influenzato il mio lavoro. Pubblicato nel 1988 dalla Lucasfilm Games, scritto e diretto da David Fox, Zak McKracken and the Alien Mindbenders ha ampliato le possibilità narrative ed ipertestuali di un video gioco. In Zak si alternano scene fisse in prospettiva semplificata, con scene a scorrimento bidimensionale verso sinistra e destra. Le schermate che andremo a vedere, comparate a quello che succede oggi nell’industria del video gioco, appaiono schematiche. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, possono ancora insegnarci qualcosa.

Di recente, ho letto L’Arte di Vedere[4] di Aldous Huxley dove si scompone la facoltà del vedere in sensazione, selezione e percezione. Nel vedere di un adulto questi passaggi avvengono pressoché simultaneamente. Nei neonati esiste sensazione, macchie di colori non selezionate. Le macchie non sono ancora collegate alle entità del mondo. Crescendo, la selezione, porrà in attenzione alcune parti della scena. La percezione infine, attraverso l’interferenza con l’esperienze raccolte nella memoria, assegnerà i significati.

La schermata iniziale di Zak è composta da un insieme di macchie di colori. Noi riconosciamo, in queste macchie, oggetti che rimandano alla realtà. Riconosciamo un letto, una lampada, una palla di vetro con pesce rosso ed un telefono. Se ci pensate è incredibile! Quel telefono non è un telefono, solo un gruppetto di pixel. L’astrazione dei pixel stimola il processo di selezione delle macchie colorate. Promuove uno stato di attenzione che svela le possibilità nascoste della narrazione. Vedete questo pixel mancante sul bordo del tappeto, lì sotto, ad esempio, si nasconde una botola!

Zak McKracken and the Alien Mindbenders

Zak McKracken and the Alien Mindbenders



Nel mondo della realtà virtuale odierno, questa qualità dello stare in attenzione sembra essersi perduta. L’ossessione per la verosimiglianza anestetizza: esclude quel processo di sintesi e riduzione al simbolo proprio della rappresentazione dell’umano. Il feticismo per la tecnologia prende il sopravvento. Le storie diventano secondarie, disperse da lussureggianti mondi generati al computer. Significato e rappresentazione divorziano e non riescono più a definire un’unità artistica durevole.

Dieci anni fa, durante la creazione della serie delle Case Immaginarie, impiegando la realtà virtuale col fine di rendere verosimili le immagini, avevo già osservato le conseguenze di questo fenomeno. Così, quando nell’ottobre del 2012 progettai House of Dust, anche in conseguenza del dibattito seguito all’articolo di Der Spiegel, ricercai questa stessa forma di rappresentazione semplificata che oggi mi appare chiarificata da questa analisi di Zak.

Credo che un gioco come Zak, con la sua grafica arcaica, possa quindi essere utile a comprendere ed accettare un aspetto fondativo: come in una sequenza invertita, l’astrazione ci aiuta a riconoscere che ciò che percepiamo non è mai come ci appare. Ciò che accade non è lì, ma preesiste ed avviene dentro di noi. Siamo dunque dei simulatori. Voi che mi state ascoltando, il fenomeno della mia voce, accade dentro le vostre orecchie. Viviamo già una simulazione della supposta realtà.

La rappresentazione di un’opera è quindi parte inscindibile della sua esistenza.

Quando vediamo la stanza di Zak nella scena iniziale del gioco, potremmo pensare che sia un disegno semplice. Non oso immaginare quanto tempo abbiano impiegato i progettisti per raggiungere questa impressione di semplicità. Io stesso ho ricercato questo senso di prospettiva semplificata in House of Dust. Questa strategia rappresentativa è funzionale all’emersione degli elementi fondamentali della narrazione. Nella stanza di Zak poche macchie di colori ci permettono di identificare le cose dello spazio: due finestre, una aperta blu e l’altra chiusa bianca, ed un tappeto porpora. Il Commodore 64, computer su cui fu programmato il gioco, disponeva di soli 16 colori. Questo limite tecnico, richiedendo uno sforzo di selezione e rinuncia, valorizzava quindi la storia del gioco.

Ma osserviamo una nuova immagine. Questo è l’interno della capanna di uno sciamano in Zaire, che tra l’altro è anche un giocatore di golf. Come è raccontata questa capanna? I pochi colori e pixel disponibili sul Commodore 64 rendevano quasi impossibile una digitalizzazione fotografica dei materiali. Così, l’idea del pavimento di paglia diventa un’alternanza di linee porpora e gialle, e l’idea dell’architettura tessile, propria della tenda-capanna, diventa una decorazione a rete sulla parte superiore dei muri della stanza. Anche House of Dust presenta una testura sulla parte superiore dei muri che evoca la narrativa fondamentale dell’opera: l’idea della grotta. La testura, quindi, in entrambi i casi diventa narrativa.

Ad un certo punto del gioco, due studentesse trasformano il loro pulmino in navicella spaziale e si ritrovano in prossimità di un ostello su Marte. Nei dintorni, piramidi ed una misteriosa Faccia su Marte costituiscono un complesso edilizio alieno abbandonato. All’interno dell’edificio-faccia, che si rivela essere un tempio alieno, troviamo tre muri girevoli incassati dentro profondi recessi, con a lato dispositivi-piedistalli con una sfera su tre piedi. La fotografia principale di House of Dust propone lo stesso insieme di cose: un profondo recesso con un muro passaggio-segreto a fondale, che qui non porta al labirinto ma bensì in cucina, ed alcuni tavolini treppiedi di cui uno con una sfera.

Attraverso questa mia storia spero di aver mostrato come Zak McKracken and the Alien Mindbenders possieda un potere. Il potere di far emergere i potenziali sommersi di ciascuno. Quando giocavo a Zak avevo quattordici anni. Abitavo a Trapani, in Sicilia, e mi sentivo solo. Non avevo amici, i miei amici erano gli autori di Zak a San Francisco, ma questo l’ho capito adesso. Giocavo una realtà ideata e costruita da qualcuno che abitava dall’altra parte del pianeta. Non leggevo libri, i miei genitori non avevano una libreria. Questo gioco e pochi altri, sono stati un invito a distruggere quella realtà. Hanno indicato una possibilità: quella di credere in un’altra storia. Credere nella possibilità di andare al di là del fantastico e del reale. Questa divisione non esiste, è solo una costruzione del nostro tempo, che vuole l’immaginazione confinata nelle gallerie d’arte e nei musei.

Antonino Cardillo al Teatro 11 di Cinecittà

Antonino Cardillo, ‘Da Zak McKracken ad House of Dust’, conferenza parte di Rome Video Game Lab, Istituto Luce Cinecittà, Teatro 11, Roma, 2019. Fotografia: Danilo Balducci




Note

  1. ^ Tony Chambers, Jonathan Bell, Ellie Stathaki, ‘Architects directory 2009’ (pdf), Wallpaper*, n. 125, eic. Tony Chambers, Londra, ago. 2009, pp. 74, 76‑77, 81.
  2. ^ Susanne Beyer, ‘Hochstapler: Römische Ruinen’,[↗] Der Spiegel, n. 27/12, Amburgo, 2 lug. 2012, pp. 3, 121‑123.
  3. ^ David Fox, with Matthew Alan Kane, Zak McKracken and the Alien Mindbenders [videogame], Lucasfilm, San Francisco, 1988.
  4. ^ Aldous Huxley, The Art of Seeing, Harper and Row, New York, 1942; ed. it. Adelphi, Milano, 1989.