Articolo
Antonino Cardillo
La storia deve essere trattata con cura, afferma Antonino Cardillo, che avverte che troppo rispetto per il passato sta soffocando il potenziale dell’architettura italiana.
La storia dell’uomo si è sviluppata attraverso una continua interazione tra diverse culture. Spesso accade che i dominanti si impossessino dei sottomessi, riuscendo a mascherare il processo riscrivendo attentamente la storia. Questo ha probabilmente portato alcune società a credere di essere le uniche proprietarie di qualcosa. Sarebbe stato lo stesso il fiorire artistico e scientifico del tardo medioevo nell’Italia settentrionale e centrale, fortemente stimolato dall’afflusso di poeti e intellettuali siciliani dalla corte di Federico II di Svevia, che poi maturò nell’umanesimo, senza il saccheggio della cultura orientale avvenuto durante le crociate?
E guardando più da vicino, sette secoli prima della Riforma protestante, non avevano già i musulmani abolito la gerarchia religiosa e i santi? E ancora, cos’era l’arte del tardo impero romano se non un straordinario crogiolo di architetti, artisti, filosofi e politici provenienti dalle province più remote dell’Impero? È noto, ad esempio, che le volte a botte, una caratteristica distintiva dell’architettura romana, furono importate dalla Persia. Allora, perché alcuni pensano che sia scandaloso vedere un edificio a Roma di un architetto americano, un edificio a Firenze di un architetto giapponese o un edificio a Venezia di un architetto spagnolo?
Nel 1959 Reyner Banham, in un illuminante articolo sul ritiro dell’Italia dall’architettura moderna (The Architectural Review, n. 125, pp. 230‑235), avvertiva che “il recente lavoro di Aulenti, Gregotti, Meneghetti, Stoppino, Gambetti e dei loro associati e seguaci, e la continua controversia sostenuta da Aldo Rossi e altri in loro difesa ha creato una crisi nello stato complessivo del movimento moderno in Italia.”
Nel settembre 2005, trentacinque professori, alcuni di grande intelletto, hanno fatto appello al presidente della repubblica denunciando “il rischio … che interrompe la continuità della ricerca iniziata negli anni ’30 [in Italia] … portata avanti con lo spirito innovativo di molti rappresentanti delle generazioni successive.”
Questa generazione di architetti ha vissuto un periodo in cui la loro architettura era principalmente commissionata dallo stato. Lo stesso è accaduto in Francia, ma lì, giovani architetti come Rogers e Piano hanno dato nuova vitalità a Parigi. In Italia, tutto è avvenuto in un ambiente oppressivo, nato dalla collusione tra le università e le istituzioni politiche.
Di conseguenza, il settore privato non è stato un campo sperimentale decisivo e pochi architetti si sono interessati alla ricerca per fornire edifici residenziali di buona qualità. Questa è sicuramente un’opportunità mancata per il tessuto delle nostre città.
La storia ci insegna che l’architettura genera luogo. Oggi la complessità storica delle città italiane è compromessa da un tragico vuoto di contemporaneità. Molti amministratori e architetti credono di rispettare il passato, replicandone le forme e i colori, trasformandolo in una categoria astratta in cui la coscienza critica dorme. Ma dobbiamo chiederci ancora una volta: le specificità locali di un luogo, le loro cosiddette ‘tradizioni’, sono sempre state immuni alle influenze geografiche, alle pressioni esterne?
I nostri tempi sono il culmine di un continuo processo storico e geografico. Censurarne l’esistenza nega la storia stessa. Negli ultimi dieci anni il ‘moderno’ è stato reintegrato dalla moda, dal design, dagli interni, dal cinema e dalla musica. È diventato la categoria estetica dominante, subendo allo stesso tempo una continua erosione del significato.
Cannibalizzarlo sostituisce i miti moderni con quelli antichi, ma il processo rimane falso. L’uso improprio di un periodo molto recente rischia di alterare il significato dell’originale, creando una storia parallela e più accettabile. Molte persone sono stimolate dai segni di un passato recente e, non avendo i mezzi per storicizzarli, li riducono a icone astratte, idealizzate e intercambiabili.
Abbiamo codificato nuovi linguaggi o stiamo prendendo segni, luoghi e oggetti dalla storia recente, rielaborandoli continuamente? È questa una nuova forma di storicismo?
L’architettura, dal mio punto di vista, è l’arte di costruire eventi spaziali dislocati nel tempo e che cambiano alla luce. Un’opera, ad esempio, può essere compresa solo attraverso i percorsi e i viaggi che qualcuno intraprende quando ne sperimenta l’interezza. Alcune persone guardano solo alla melodia per un’analisi corretta dell’opera. Tuttavia, la melodia stessa non ci dice nulla sul dove e come sia stata collocata all’interno di una sequenza concettuale.
Negli ultimi decenni la diffusione dell’architettura attraverso i media a stampa ha purtroppo stimolato, anche negli studi architettonici più interessanti, la produzione di edifici fotogenici, che, quando visitati, si rivelano effimeri, incapaci di andare oltre l’entusiasmo del momento per raggiungere quello stato senza tempo che distingue la grande architettura della storia.
La pagina 58 del numero 256 di Blueprint.