Cardillo

architettura

antologia / dell-architetto / interviste / siamo-specchi-l-uno-dell-altro /

Siamo specchi l’uno dell’altro

Firenze,


Stefano Mirti e Gioia Guerzoni intervistano Antonino Cardillo sulla rivista Opere



Opere 32



Intervista



Questa intervista è frutto di un processo laborioso. Iniziata con due sessioni di videoconferenza. È proseguita con una serie di incroci a Venezia per poi concludersi con diverse ulteriori sedute a correggere, affinare, spiegare meglio. Chi scrive ha la certezza che nonostante l’account fosse sempre lo stesso, nel corso delle prime due conversazioni si avessero di fronte due persone diverse. A Venezia, all’appuntamento, si è conosciuta una terza persona (diversa dalle prime due). Ovviamente poi, nelle ultime videoconferenze, si è avuto a che fare con facce altre che di volta in volta affermavano di essere Antonino. Come disclaimer finale di questa nota introduttiva, l’indirizzo email info@antoninocardillo.com ci conferma che la conversazione che segue è stata svolta con Antonino Cardillo.

 — Buongiorno Antonino.

 — Buongiorno, in che cosa posso esservi utile?

 — Era per quell’intervista, per la rivista Opere.

 — Mi sembra di ricordare, o forse no. Comunque non importa, va bene, eccomi. Da dove volete iniziare? Vi avverto, sono un pessimo soggetto da intervistare.

 — In che senso?

 — C’è, tra me e il mondo, una nebbia che mi impedisce di vedere le cose come veramente sono – come sono per gli altri. Nello specchio è domenica e nel sogno si dorme. Da cui, spesso ci si perde.

 — Corriamo il rischio. Ci sarebbero molteplici partenze possibili. Ci piacerebbe partire dai riferimenti concettuali del suo lavoro. Volendo capire quello che lei fa, esistono ancoraggi teorici rilevanti?

 — Credo di sì. Sapete meglio di me che con i cattivi sentimenti si fanno i buoni romanzi. O le buone teorie. Forse anche, in alcuni casi, architetture. Comunque, forse, più che teorici, direi speculativi. Non so. A volte non capisco neanch’io. È come se ci fosse una stanchezza dell’intelligenza astratta ed è la più terribile delle stanchezze. Almeno, io mi stanco molto.

 — Lasciamo per un secondo da parte la stanchezza. Concentriamoci sul termine speculativo. Da dove si inizia?

 — Forse inizierei da specula, dal latino. Ovvero da luogo dal quale si osserva. A me piace immaginarmi come una specola. Un luogo eminente per guardare o se preferite, esplorare. Una sorta di telescopio. Del resto, voi mi insegnate che la sincerità non è una questione di volontà, ma di talento. Mi sembra evidente no? Nessun problema può essere risolto. Quando una situazione diventa un problema non ha alcuna soluzione.

 — In che senso scusi?

 — Mi sembra abbastanza evidente: i problemi sono per definizione senza soluzione. Nessun problema può essere risolto, e tutte le soluzioni conducono ad altri problemi. Non so se avete presente le stampe di Piranesi. O al limite il Palazzo dei Congressi di Adalberto Libera all’EUR. Ecco. Lì si ha una manifestazione plastica di una serie di problemi senza soluzioni. Un assoluto, ne converrete.

 — Su Libera all’EUR lei trova terreno fertile con noi. Ma al di là della sincerità e dei problemi irrisolvibili, di cui parleremo magari dopo, il telescopio le serve per guardare gli astri?

 — No, direi di no. Diciamo che si tratta di un congegno per guardare dentro se stessi. Potrebbe essere un osservatorio per contemplare la propria anima. I propri desideri, le proprie paure. Io produco immagini che possono essere paragonate ai raggi X; se si sanno maneggiare, attraversano ogni cosa. Le guardi, e ti trapassano da parte a parte. Niente di più e niente di meno. È come per la mia collezione di incisioni piranesiane. Ne ho una ventina, comprate nel corso degli anni. Ne prendi una, la osservi, ma dopo un secondo è lei che osserva te. Ti trapassa da parte a parte. Mette a nudo le paure. Questa condizione di sospensione, io e Piranesi, la mia paura e la sua paura che si specchiano attraverso una sua incisione, questa sensazione mi piace. Mi abbandono.

 — Capito. Ineccepibile. Non immaginavamo di iniziare in questo modo, ma dai primi scambi si preannuncia un’intervista interessante.

 — Direi che dipende da voi, non da me. Meglio il sacrificio di uno solo che la corruzione di molti. Era valido per Piranesi, era valido per Sottsass quando andava nel deserto, è valido anche per me.

 — Chiaro. Cioè, niente affatto chiaro. Comunque, facciamo finta che sia chiaro.

 — Una società di persone che non sognano non potrebbe esistere. Sarebbero morte in due settimane. Bocconi di silenzio, null’altro.

 — Anche su questo, siamo d’accordo. Magari andiamo avanti. Stabiliti i riferimenti teorici e concettuali, se invece volessimo dare qualche riferimento ‘fisico’ rispetto al suo lavoro? Esistono architetti o luoghi, edifici che nel corso degli anni l’hanno particolarmente affascinata o interessata?

 — Se credete, potremmo partire da Palazzo Barberini, a Roma. Che volete, ogni cosa a suo tempo ha il suo tempo.

 — Palazzo Barberini. Si arriva quindi al primo barocco. Carlo Maderno, a cui segue poi Bernini fino ad arrivare al Borromini… Interessante.

 — In verità io partirei da Palazzo Barberini, ma forse non per le ragioni che voi immaginate. Non siate così diretti. Se procedete in maniera lineare non arrivate da nessuna parte. Partirei da Palazzo Barberini, se me lo consentite, perché non si può avere una civiltà durevole senza una buona quantità di amabili vizi. Tu sei solo. Non lo sa nessuno. Taci e fingi.

 — Giusto. Quindi? Cosa stavamo dicendo?

 — Voi stavate dicendo che si vive insieme, che agiamo e reagiamo gli uni agli altri; ma sempre, in tutte le circostanze, siamo soli. Vi seguo, sono abbastanza d’accordo.

 — Stavamo dicendo questo? È sicuro?

 — Certo. Ovviamente, a corollario del vostro assunto di partenza non possiamo nasconderci che i martiri quando entrano nell’arena si tengono per mano; ma vengono poi crocifissi soli.

 — Ci stiamo perdendo. Eravamo rimasti a Palazzo Barberini.

 — Bravi. Sapevo di avere a che fare con persone intelligenti. Anche io mi sono informato nei vostri confronti. Ho chiesto in giro. So che siete bravi. Dunque so anche che siete in grado di reggere il gioco. Suvvia. La cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili.

 — Quindi, scusi, che cosa dobbiamo fare?

 — Non posso dirvi tutto io… Se volete, vi aiuto. Si potrebbe partire dalla scala elicoidale del Borromini. E procedere forse verso El Greco o magari Filippo Lippi. E se tutti noi fossimo sogni che qualcuno sogna, pensieri che qualcuno pensa?

 — Quindi non stiamo parlando di Tiziano e neanche di Raffaello?

 — Direi di no. E, ai fini di questa conversazione, forse neppure Tintoretto ci può essere di grande aiuto. O forse no? Voi che dite?

 — Non sappiamo cosa dire. L’intervista la stiamo facendo a lei.

 — Dunque, ero appena arrivato a Roma, qualche anno fa. Roma per me è importante, è la città in cui ho scelto di vivere. Dunque, per una serie di circostanze mi ero trovato a dormire dentro Palazzo Barberini. Una notte, una sola. Un regalo speciale. Quando mi alzai, presi a camminare, e potevo farlo del tutto normalmente, senza falsare i contorni degli oggetti. Lo spazio era sempre là, ma aveva cessato di predominare. La mente si interessava, soprattutto, non di misure e collocazioni, ma di essere e significato. E con l’indifferenza per lo spazio venne una indifferenza ancora più completa per il tempo. Non so se riuscite a seguirmi.

 — Non completamente, ma lei vada avanti.

 — A Palazzo Barberini, tanto più alta è l’arte, tanto più bassa è la morale. Forse questo vi aiuta…

 — Dunque, forse sarebbe il caso di avviarci verso i Caravaggio…

 — Potrebbe essere un’idea, lì ci sono alcune schegge importanti.

 — Dalla conversazione avuta sin qui, probabilmente non si tratta né di Giuditta e neanche di Oloferne…

 — Esatto. E a mio avviso, neppure di San Francesco: come vi spiegavo prima la risposta è sempre all’interno del problema, non al di fuori.

 — Rimane dunque il Narciso

 — L’avete detto voi. Io posso solo dire che la moderna Cappuccetto Rosso, allevata a suon di pubblicità, non ha nulla in contrario a lasciarsi mangiare dal lupo. O forse no?

 — Capito. Forse. Quindi, partiamo dal Narciso di Caravaggio perché lei si sente un narciso? O forse si sente Cappuccetto Rosso?

 — Ve l’ho già detto, non siate così triviali nelle vostre interpretazioni. Ho il sospetto che con me, se procedete in maniera lineare non andate da nessuna parte. In più questo fatto che il Narciso sia di Caravaggio non è nulla di più che un’ipotesi, l’ha scritto Roberto Longhi. Ma non è realmente così.

 — Dunque lei propende per l’attribuzione a Orazio Gentileschi?

 — No non credo. Se dovessi dire io, propenderei per chi dice che è stato dipinto dallo Spadarino, ma non è questo il punto. Il passaggio interessante è che si tratta di un’attribuzione incerta. Pensate al peso di sentire. Al peso di dover sentire.

 — Quindi questo quadro è per lei un riferimento per l’attribuzione incerta. E non per il soggetto?

 — Voi che cosa leggete nel soggetto?

 — L’interpretazione è abbastanza condivisa. Abbiamo Narciso che si specchia. Il rapporto tra la persona fisica e il suo riflesso. Il bambino nel momento che precede la scoperta dell’inganno.

 — Mi piace questa vostra spiegazione. Non ci avevo mai pensato. Grazie.

 — Ci scusi, ma il riferimento l’ha tirato fuori lei, non noi.

 — No, non mi sembra proprio. Che cosa state dicendo?

 — In che senso, scusi?

 — Questo l’avete detto voi. Io ho indicato un palazzo a Roma. Voi, in maniera autonoma siete arrivati all’inganno del riflesso. Io non ho fatto o detto nulla. Siete voi che state parlando, non io. Per un’intelligenza non preparata, qualunque lettura e qualunque film, come qualunque viaggio, è sempre un’esperienza banale, non nutre affatto – mi pare ovvio. Ma voi mi sembrate preparati.

 — Quindi il Narciso di Caravaggio, o di chi sia, è un possibile riferimento?

 — Indubitabilmente, ma l’avete detto voi. Partendo da Palazzo Barberini si può arrivare in un milione di luoghi diversi. Ero curioso di vedervi all’opera. Come vi dicevo all’inizio, io sono una specola. A me sembra che voi cercate in me delle cose che sono però dentro di voi, nella vostra testa, nel vostro immaginario. Non è libertà di ascolto la possibilità di accendere o spegnere il computer. Qualcuno che sembra sempre la stessa persona non è una persona. È un personificatore di persone.

 — Ma se lei è uno specchio, e noi portiamo innanzi un secondo specchio, che cosa succede?

 — Questo me lo dovete dire voi. Del resto, sia io che voi sappiamo che gli specchi non elaborano grandi verità. Qualcuno che sembra sempre la stessa persona non è una persona. È un personificatore di persone.

 — Eh, in effetti… Lo dice Burroughs, giusto?

 — Non mi ricordo, forse sì. Immaginate una costruzione di cinque piani senza pareti né scale.

 — Lei conosce Jean Cocteau?

 — Certo che lo conosco. Ho passato diciotto mesi a Villefranche sur Mer. Ho ricopiato tutti i suoi affreschi. In scala 1 a 1. Su Cocteau, sono preparato. Ho capito dove volete andare a parare. Ma è un vicolo cieco, non ci porta da nessuna parte: a forza di andare al fondo delle cose, ci si resta.

 — Ma perché dice che Cocteau non è un riferimento utile?

 — È stato lui ad affermare che un artista originale è incapace di copiare. Quindi gli basta copiare per essere originale. Io ho capito Cocteau, ho capito dove voleva andare a parare, circa quarantamila anni fa. Per venirvi incontro, un inciso, lui ha anche detto che un architetto non può parlare della sua architettura più di quanto una pianta possa discutere di orticoltura.

 — Guardi, su questo si sbaglia, lui parlava dell’artista, non dell’architetto.

 — Il meridione rugge, il nord non ha salite. Non fate i milanesi, con me non attacca. Niente scoramenti, andiamo. Andate a lavorare. Per me è la stessa cosa. Io devo andare a lavorare. L’architetto non è l’artista dello spazio?

 — Se lo dice lei…

 — Ma io non dico nulla. Siete voi che parlate. Voi avete delle idee e cercate di fare in modo che sia io a tirarle fuori. Ma non funziona così. Vi devo confessare che siete un pochino prevedibili. Citate Cocteau. Ho capito. volete che si parli di specchi. Bene. Cocteau dice: «Gli specchi dovrebbero riflettere un momentino prima di riflettere le immagini». Che cosa volete che dica adesso? La vostra assenza è un assedio. Forse, vi chiederei una tregua prima dell’attacco finale.

 — Ma non ci sono attacchi. C’è forse uno specchio. O al limite un caleidoscopio. Lei non si trova d’accordo?

 — La vostra anima è il vostro specchio: siete voi.

 — Bella questa. L’ha pensata lei?

 — No, direi di proprio no. È George Bernard Shaw. Shaw, tra gente indifferente. Ma non sono io, sono gli altri.

 — Quindi continuiamo a parlare di specchi?

 — Se vi piace, perché no? L’intervista siete voi che la chiedete. Parliamo di quello che volete voi. Io non ho preferenze. Volete parlare di specchi? Perfetto. Volete parlare di case? Ottimo. Ma lo sapete cosa faccio? Io mi compro un sottomarino. Non una barca, un sottomarino. Altro che le barche, altro che gli yacht, altro che gli specchi. Non so se riuscite a seguirmi.

 — Non perfettamente. Ci sembra di essere in un labirinto, ma come le spiegavamo, noi apprezziamo molto il suo lavoro.

 — Gli unicorni possono essere indotti in inganno per mezzo degli alberi; gli orsi per mezzo degli specchi; gli elefanti per mezzo delle buche; i leoni per mezzo delle reti, e gli uomini, infine, per mezzo dell’adulazione.

 — Questo è Shakespeare…

 — No, questa l’ho pensata io. Era per farvi capire che per capire quello che faccio dovete essere bravi per davvero, non basta l’adulazione.

 — A prescindere dall’adulazione, a noi sembra di ricordare che quello che lei citava prima è un frammento (peraltro abbastanza importante) di Shakespeare…

 — «Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il vuoto stesso, (che, lo si sa, è la forma).» Questo è Shakespeare. O forse Roland Barthes. O forse qualcun altro. Non credo di averlo pensato io. Ma di nuovo, non mi sembra così importante. Perché vi soffermate sui dettagli non rilevanti? Questo ve l’ho detto tre volte, e perciò è vero.

 — Non sappiamo. Lei ci confonde. Possiamo fare una pausa parlando di Lewis Carroll e Alice?

 — Se volete, perché no? Anche se, di nuovo, non credo che con Lewis Carroll si vada da qualche parte.

 — Perché?

 — Mentre parlo con l’amico enigmista, penso a Lewis Carroll, a quest’uomo che non avrebbe mai scritto Alice se non avesse avuto il difficile privilegio di assistere alla catastrofe delle parole. Ma io non mi occupo di parole, io mi occupo di immagini. Siete voi che vi occupate delle parole. La parola scritta non risponde più al bisogno dell’informazione totale. È stata inghiottita dall’immagine. Le jeux sont fait.

 — Se lo dice lei, ci crediamo. Le confessiamo che ci sta iniziando a girare la testa…

 — Di Alice mi piace l’aspetto del sogno. Tutto il resto mi annoia profondamente. L’architettura, del resto, non è che un sogno guidato. E poi, basta non specchiarsi. Se non ci si specchia, non si ha nessun problema.

 — Lei ama specchiarsi?

 — Di Alice mi piace l’aspetto del sogno. Tutto il resto mi annoia profondamente. L’architettura, del resto, non è che un sogno guidato. E poi, basta non specchiarsi. Se non ci si specchia, non si ha nessun problema.

 — Ci deve essere un errore. Ha ripetuto la stessa frase due volte.

 — Io vivo di ripetizioni. Del resto, di Alice mi piace l’aspetto del sogno. Tutto il resto mi annoia profondamente. L’architettura, del resto, non è che un sogno guidato. E poi, basta non specchiarsi. Se non ci si specchia, non si ha nessun problema.

 — Preferisce chiudere qui l’intervista?

 — Preferisco immaginare. Come Sottsass nel deserto, come San Simeone lo Stilita. Quarant’anni su una colonna. Il diavolo lo tenta in tutti i modi, ma lui non scende mai. Gli offre qualsiasi cosa. Ori, ricchezze, donne, soldi. Tutto. Ma lui non scende mai. Pazzesco. Poi a un certo punto, il diavolo gli propone di portarlo allo Studio 54 a New York. E San Simeone accetta. E parte per New York. Ecco San Simeone lo Stilita sul 747 pronto per andare allo Studio 54, quello sono io. Volete seguirmi?

 — Ci sembra un viaggio un poco impegnativo. Siamo affascinati dai suoi percorsi mentali.

 — Non sono percorsi mentali, sono viaggi reali. Di notte a Palazzo Barberini. In una torrida estate, nel teatro sul tetto del Palazzo delle Esposizioni. Sognando Buñuel a braccetto con Felix Krull.

 — Lei ogni tanto si confessa?

 — Solo quando leggo Thomas Mann. Ma mi capita di rado. Anche, quando faccio dei sogni un poco particolari. Sogni facili da interpretare, sogni difficili da interpretare. Dipende.

 — E quando sogna, le interpretazioni le dà lei, o si fa aiutare da altri?

 — L’interpretazione dei sogni, così come l’I-Ching sono cose che lasciano il tempo che trovano. Mi attirano, ma poi mi annoiano. Moltissimo. Inizio a sforzarmi a trovare un’interpretazione, ma poi mi arrendo. E lascio che siano gli altri, che facciano loro la fatica di trovare un’interpretazione.

 — In che senso?

 — Fondamentalmente a me non interessa l’immagine che vedono gli altri.

 — Quindi non le interessa nemmeno la storia del Doppelgänger, del gemello maligno, e quindi del fake e del plagio, giusto?

 — Come dicevo prima, ognuno dà della realtà la traduzione che vuole. Cioè io accetto che ci siano milioni – o se preferite miliardi – di versioni della visione di un fenomeno. E quindi ovviamente anche del fenomeno Cardillo. Ognuno dà una spiegazione diversa, io mi limito a collezionare le versioni. Mi piace questo esercizio di collezione. Vedo me stesso essenzialmente come un osservatore. Mi è accaduto di avventurarmi a progettare, ma ritengo che quello che ho visto sia molto più importante di quello che ho progettato.

 — Questo ci sembra un passaggio importante.

 — È raro trovare un buon osservatore quanto è raro trovare un bravo progettista. C’è chi dice che il progettista deve adoperare una lingua che tutti possano capire. Figuriamoci. Non la deve capire nessuno! Devono guardarla e riguardarla; sennò quale sarebbe la polivalenza linguistica del progettista contemporaneo? Cosa credete, che si cambia il mondo occupando le case o andando ai centri sociali? Suvvia, siete troppo intelligenti per queste meschinerie.

 — Be’, detto da lei non so se è un complimento. Lei sa che è una qualità sopravvalutata, l’intelligenza. Tornando a noi, lei come immagina di cambiare il mondo?

 — Si fa come faceva Ferdinando Pessoa.

 — Ovvero?

 — Io non sono niente e non sarò mai niente. Non posso voler essere niente. A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo. Il mondo lo si cambia agendo dall’interno, come  un virus. Un virus che si chiama linguaggio. Il progettista deve adescare, non deve raccontare niente, non ha nessun compito di trasmettere verità. Appena si interseca la verità, crolla tutto. Pessoa si era inventato trenta Pessoa. Trenta autori diversi. Che si scambiavano corrispondenze, gli scrivevano, lui gli rispondeva, si rispondeva. Trenta Pessoa e lui chi era? Un altro.

 — Ma non ha appena detto che lei non si occupa di parole?

 — Sì ma solo come strumento. Anzi, come vestito del pensiero. Se il pensiero è grossolano, il vestito non riesce certo a nasconderlo. Ma se il pensiero è elegante allora vale tutto. Credo.

 — E sul Doppelgänger, che cosa ci stava dicendo?

 — Un progettista gradatamente si identifica con la forma del proprio destino; un progettista è, a lungo andare, le proprie circostanze. Come significato di Doppelgänger, io scelgo il fenomeno nel quale si vede la propria immagine con la coda dell’occhio. Una cosa molto più innocente della definizione primaria.

 — Quindi ci sta dicendo che la verità è molto più semplice?

 — Ogni verità è semplice. Non è una doppia menzogna?

 — Cardillo, siamo daccapo. Di nuovo, questa non è sua.

 — Ma siete ossessivi. L’ho trovata in un Bacio Perugina. È così rilevante?

 — No, infatti.

 — Ecco, bravi. Infatti, l’ha detto Nietzsche. Contenti? Era un Bacio Perugina comprato in Germania. Ci vado spesso. Io amo la Germania. E la Germania mi ama. Mi strizza l’occhio. So che mi vuole bene.

 — Non è che siamo contenti o scontenti. È che lei ci confonde.

 — Una storia di fatti particolari è uno specchio che oscura e distorce ciò che potrebbe essere bello. Mentre invece la poesia è uno specchio che rende bello ciò che è distorto. Ma questo non ha a che fare con gli specchi. E neppure con il falso.

 — Bene, quindi non vogliamo parlare di falso.

 — Ma no, parliamone pure, ci mancherebbe. Era dalla nostra prima conversazione che aspettavo questa domanda. Ve l’ho detto. Siete molto gentili, ma anche così prevedibili…

 — Be’, d’altronde è un buon modo per non parlarne più. Dopo. Allora cos’è questa storia dei rendering, in breve?

 — Come vi dicevo prima, ognuno può vedere in quei miei lavori sia l’originale che il falso. D’altronde, sapete meglio di me che Borges spiegava che l’originale è infedele alla traduzione. Quindi, se partiamo da qui, i miei rendering sono l’originale.

 — Chiaro. E quella definizione sul “New York Times”?

 — Credo che mi sia sfuggita. Che cosa scrivono?

 — «Antonino Cardillo è forse l’esempio più famoso di architetto che vive delle sue invenzioni e che non inventa quasi niente». Si riconosce?

 — Mi piace. Si, voi che dite? Mi sembra appropriata. Per i prossimi venti minuti direi che mi può rappresentare perfettamente. Peraltro, con tutto il lavoro che ho fatto, quella definizione li mi sembra proprio di essermela meritata. D’altronde nulla è vero. Tutto è permesso.

 — Finiamo dunque l’intervista con Burroughs?

 — No. Io sono europeo. Profondamente europeo. Da questo punto di vista, tutto è manipolazione. E a volte questo è bene.

 — Su Beuys ci arrendiamo. Ha vinto lei. Grazie.

 — Ve l’ho detto prima. Di Alice mi piace l’aspetto del sogno. Tutto il resto mi annoia profondamente. L’architettura, del resto, non è che un sogno guidato. E poi, basta non specchiarsi. Se non ci si specchia, non si ha nessun problema. Senza contare che io amo ripetermi. Prima di lasciarvi però, vorrei dirvi un’ultima cosa.

 — Prego.

 — Siamo molto superficiali, noialtri. Non entriamo nello scherzo fino in mondo. Lo scherzo è più profondo e radicale, cari miei. E consiste in questo, adesso ve lo spiego. L’essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze che esso si crea, e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cambia, naturalmente, secondo l’essere che in quella forma e in quell’atto ci appare.

E ci deve sembrare per forza che gli altri hanno sbagliato; che una data forma, un dato atto non è questo e non è così. Ma inevitabilmente, poco dopo, se ci spostiamo d’un punto, ci accorgiamo che abbiamo sbagliato anche noi, e che non è questo e non è così; sicché alla fine siamo costretti a riconoscere che non sarà mai né questo né così in nessun modo stabile e sicuro, ma ora in un modo ora in un altro, che tutti a un certo punto ci parranno sbagliati, o tutti veri, che è lo stesso; perché una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile.

La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprirsi illusione di domani. Passo e chiudo. Non mi dite che non avete capito: se avessi voluto farmi capire ve lo avrei spiegato in una maniera più semplice. Ma sono tempi difficili. E non si fanno sconti a nessuno.

Vi voglio bene. Quando tornate a casa, sempre che vi ricordiate ancora di me, mandatemi una cartolina.